Intervento di Paolo Pugni

(trascrizione non rivista dall'autore)
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Per quale ragione il professore di filologia e letteratura ad Oxford John Ronald Reuel Tolkien ha scritto il Signore degli Anelli? Com'è possibile definire la sua opera? Si tratta forse di un'opera fantasy? O è un libro per bambini? Qual è l'etichetta più veritiera per classificare i romanzi di Tolkien? C'è forse uno scopo, un fine, un messaggio che Tolkien vuol trasmettere ai suoi lettori con queste opere? È soltanto una fuga dalla realtà, come molti hanno pensato di capire? Tolkien è un ecologista ante-litteram che inneggia alla natura o nei suoi confronti è stato commesso il medesimo errore di interpretazione di coloro i quali ritengono S. Francesco protoecologista e protoanimalista? Qual è il segreto di un libro che riesce a parlare direttamente al lettore?
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio lasciando la parola a Tolkien stesso che nella lettera a Padre Murray del 2 Dicembre 1953, riportata nel saggio La realtà in trasparenza, edito da Rusconi, scrive:

"Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica; all'inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo "la religione" oppure a culti e pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l'elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo."

Tolkien scrive una storia attingendo al patrimonio di simboli che lui conosceva bene, essendo un affermato studioso della letteratura e della mitologia medioevale e antica dei popoli nordici. Che cosa c'è infatti alla radice della letteratura di Tolkien? Che cosa spinge Tolkien a trovare spazio nelle sue tranquille giornate, divise tra l'insegnamento ad Oxford, le lezioni private e la cura per la famiglia, per immaginare le gesta di Hobbit ed elfi nella Terra-di-Mezzo?
Due sono le motivazioni che lo inducono ad abbandonare, dapprima riluttante poi con sempre maggior entusiasmo, i suoi studi per dedicare tempo ed energie nella creazione di nuovi mondi: la sua passione per la mitologia e il suo profondo amore per le lingue che gli nacque in tenera età. Sua madre fu la prima a insegnargli le lingue, dapprima il latino e poi le altre lingue antiche. E per Tolkien le lingue assunsero quel ruolo che per altri assumeva la musica. Tolkien amava pronunciare anche semplicemente delle parole in linguaggio diverso dal suo per sentire il suono. Fu attratto enormemente dall'antico gaelico e da altri linguaggi nordici.
Esperto nella letteratura norrena e celtica, Tolkien sente scaturire da esse una forza che non trova nella mitologia anglosassone e che, se vogliamo, non si trova nemmeno nella mitologia mediterranea dove il problema del bene e del male è visto in maniera sfumata, non così drammatica come appare nella letteratura nordica. Nell'Edda, nei miti di Thor, Odino, Sigfrido, c'è più che la semplice tradizione di un popolo, c'è ben più di poche saghe ingenue: c'è la profonda spiritualità di un popolo. Tutto questo non esiste nel mondo inglese. Tolkien con l'irresistibile entusiasmo dei geni, che non sconfina mai nella presunzione, ma è piuttosto acuta semplicità, decide di scrivere lui stesso quel patrimonio mitologico che manca al suo popolo.
E così fin dalla prima guerra mondiale, fin da quando era un ufficiale dell'esercito inglese, dapprima in trincea e poi in ospedale durante la guerra, comincia a vergare la traccia di quello che sarà il Silmarillion, opera che esce postuma perché Tolkien non riuscì mai a mettere la parola fine a quest'opera che rappresentava la sua vita. In queste lingue in questi romanzi che lui crea si nasconde un patrimonio immenso il cui tesoro non e riuscito ad arrivare fino a noi. Inizia così a vergare, fin negli anni della Prima Guerra Mondiale, la traccia di miti che poi, postumi, confluirono, nel Silmarillion, la sua più difficile e fondamentale opera. Il giovane ufficiale inglese è così innamorato delle lingue da essere convinto che in esse si nasconde un patrimonio il cui tesoro non è riuscito ad arrivare fino a noi, perché è rimasto un po' prigioniero delle interpretazioni illuministe che hanno spazzato via ogni traccia di simbolo dalla vita quotidiana e dall'arte, è a questo patrimonio di simboli che Tolkien fa riferimento. In questo Tolkien si oppone al filosofo positivista Max Muller, il quale sosteneva che la mitologia non fosse altro che una malattia del linguaggio. In realtà Tolkien ribalta il concetto: sono le lingue moderne ad essere la malattia della mitologia. Per Tolkien le lingue antiche possedevano una ricchezza che i linguaggi moderni hanno del tutto perduto. Ogni vocabolo non aveva un significato letterale, uno allegorico e uno anagogico, ma significava contemporaneamente tutto: ad esempio il termine latino Spiritus che può oggi essere tradotto con "respiro", "spirito" o "vento", a seconda del contesto, per gli antichi significava qualcosa del tipo "spirito respiro-vento". Quando soffiava il vento non era come se qualcuno stesse respirando, ma era proprio il respiro di un dio; analogamente se un latino faceva riferimento alla sua anima, usando la parola spiritus, intendeva dire che l'anima era proprio il respiro della vita. Con un linguaggio inteso in questo senso parlare è già creare dei miti. È la genuinità e la ricchezza di questo mondo, come la semplicità ed il registro profetico delle Sacre Scritture che Tolkien intende ricreare nelle lingue da lui inventate.
Amore per la mitologia e passione per lo studio e l'invenzione di linguaggi convergono nella creazione di un universo immaginario nel quale, come dichiara in una lettera al figlio nel 1958, "... il normale modo di salutarsi fosse elen sila lumenn' omentielvo". Alla Houghton Mifflin di New York, l'editore americano de Il signore degli anelli, Tolkien scrive nel luglio 1955: "Alla base c'è l'invenzione dei linguaggi. Le storie furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia". C'è un modo di dire latino che sentenzia: "nomina sunt consequentia rerum", che per Tolkien era radicalmente vera. Se lui possedeva questi nomi, se lui captava, inventava queste parole, era perché c'erano cose a cui facevano riferimento. Come giudicare il fatto che al principio della creazione di un nuovo mondo, seppure immaginario, di uno scrittore cattolico ci sia la parola? Che cosa potremmo pensare di ciò: vale a dire che per Tolkien sia la parola a creare la storia? E fatte queste premesse com'era possibile che Tolkien, per dar vita ai suoi libri, scegliesse una forma di letteratura diversa da quella fantastica? Se la mitologia per Tolkien era lo scrigno nel quale i popoli antichi custodivano la loro spiritualità, con quale coraggio, con quale scopo, lui, uomo del disincantato ventesimo secolo si lancia a scrivere quello che potrebbe sembrare un mito travestito da favola? Che cosa c'è alla radice dell'opera di questo geniale scrittore?
Per Tolkien il concetto fondamentale, alla base della mitologia e anche dello scrivere, è quello della "sub-creazione".
Così come Dio - essere perfetto - ha creato il mondo, l'uomo, - essere imperfetto e creato - ha il potere di sub-creare mondi tutti suoi, letterari, riflettendo la luce della creazione divina: "la fantasia è una naturale attività umana" scrive nel saggio Sulle fiabe, raccolto nel volume Albero e foglia (Rusconi, pag. 75) ed aggiunge:

"La Fantasia rimane un diritto umano: creiamo alla nostra misura e nel nostro modo derivato perché siamo stati creati; e non soltanto creati, ma fatti a immagine e somiglianza di un Creatore".

Nell'atto della subcreazione di un Mondo Secondario, l'uomo riacquista parte della luce che possedeva prima della caduta del peccato originale, poiché riflette parte dell'infinito patrimonio di creazioni possibili in mente dei. L'uomo si fa subcreatore per ripresentare all'uomo di oggi la creazione di Dio.
Ma, per Tolkien, così come la creazione divina è perfetta anche la subcreazione dello scrittore deve essere precisa, accurata. La realtà secondaria rappresentata deve essere il più verosimile e coerente possibile. Più che possedere la onirica nebulosità del paese delle favole, deve essere lo specchio realistico di un continente inventato: immaginato certo, ma non per questo immaginario.
"Costruire un Mondo Secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Creazione Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione", scrive ancora Tolkien in Albero e Foglia. Per questo criticherà aspramente i romanzi del suo amico Clive Steaple Lewis, perché pur essendo un romanziere estremamente intelligente ed estremamente portato, è molto approssimativo nella creazione dei suoi mondi, questo è un aspetto che Tolkien gli rimprovera sempre. Tolkien si spinse a studiare, e uso espressamente il verbo studiare e non inventare, non solo la storia di tutti i popoli che abitano nella Terra-di-Mezzo, non solo la filologia di tutte le lingue parlate, non solo l'etimologia di tutti i nomi di città, luoghi, personaggi, ma persino la geologia, la meteorologia, la botanica del suo mondo, perché il mondo che lui crea deve essere verosimile, non ci devono essere errori. Quando qualche lettore, e nelle lettere ogni tanto appare questo, gli rimprovera qualche imprecisione, lui va a fondo a studiare il perché di questa imprecisione e cerca di risolverla; ma la considera una imprecisione, non un'invenzione che in quel momento sta bene dov'è, no lui è un cronista che ha commesso un'imprecisione nell'andare ad analizzare le carte che aveva di fronte. Ma una volta che l'ebbe creata, la Terra-di-Mezzo fu davvero ancora il suo mondo? In quale modo Tolkien scriveva di questo continente che come più volte ebbe a dire è il nostro pianeta? In quale modo Tolkien conduceva la storia che in esso si svolgeva?
Nei confronti della vicenda Tolkien non si pone come un favoliere, un cantastorie, un inventore di miti, ma bensì come di uno storico: non immagina, non crea, ma si limita a raccontare ciò che è successo, registra i fatti, guarda e racconta ciò che vede e che sta ad indicare qualcosa di più grande, qualcosa che avviene ogni giorno nella vita dell'uomo, come già aveva fatto un grandissimo poeta nel romanzo cattolico per definizione. Qual è infatti la migliore descrizione di quel viaggio che non è tanto un sogno o una visione, ma che va inteso come un avvenimento storico, reale, realmente accaduto, e che ci è noto sotto il titolo di Divina Commedia? Non è forse possibile attribuire sia all'opera di Dante che a quelle di Tolkien il senso della costrizione retorica della figura, che Erich Auerbach, nel suo Studi su Dante (Feltrinelli), definisce essere "qualche cosa di reale, di storico, che rappresenta ed annuncia qualche altra cosa, anch'essa reale e storica"? E qual è il modello cui Dante dice di rifarsi quando nella lettera a Cangrande spiega il "sensus allegoricus sive moralis sive anagogicus" della sua opera? Nelle Sacre Scritture la narrazione di un evento storico è molto più che una semplice cronaca della storia di Israele: è profezia di eventi futuri. Se però solo il Creatore "può scrivere questo tipo di allegoria in cui un evento significato dalle parole significa a sua volta l''altro' significato" come può l'uomo raccontare una storia realmente accaduta, per indicare più in là, per guidare l'uomo attraverso il peccato fino alla Salvezza? Com'è possibile all'uomo trasformare la storia in profezia? Per Tolkien la risposta è facile ed immediata: l'uomo può imitare, scrivendo, come sub-creatore ciò che il Creatore ha realizzato nella storia:

"I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l'intera essenza delle fiabe [...] Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l'anelito alla sub-creazione sono stati elevati al compimento della creazione"

spiega Tolkien in Albero e Foglia (pag. 95-96). Il vangelo è l'incarnazione della leggenda nella storia, è il mito che è diventato evento, incontro fisico con Cristo, vero uomo e vero Dio. Appare quindi evidente che nelle sue storie vada cercato un altro senso, come Tolkien stesso puntualizza in una lettera a Milton Waldman:

"il mito e la fiaba devono, come tutte le forme artistiche, riflettere e contenere fusi insieme elementi di verità morale e religiosa (o di errore), ma non esplicitamente, non nella forma conosciuta del mondo 'reale', primario" (pag. 165)

Tolkien profeta dunque. Tolkien romanziere cristiano, ma che cosa c'è al cuore del messaggio Tolkieniano? C'è la grande battaglia che oppone il Bene Supremo al Male Supremo? C'è la grandiosa epica di eroi possenti? C'è la canonizzazione del cavaliere senza macchia e senza paura? Qual è il sottotitolo più adatto per il Signore degli Anelli in particolare e per l'opera intera in generale? Ce lo suggerisce Tolkien stesso: "la mia storia è uno studio sulla nobilitazione o santificazione degli umili". Come intelligentemente fa notare Paolo Gulisano, attento e acuto studioso di Tolkien sulla rivista Studi Cattolici del Febbraio di quest'anno, la chiave interpretativa dell'opera non va ricercata tanto nella lotta manichea che oppone il male al bene, i buoni ai cattivi, ma piuttosto nella "sfida con sé stessi una ricerca che si svolge tra prove, tentazioni, fallimenti e nuovi inizi. Il Nemico è dentro di sé, la prova da superare sta in quella antica terribile insinuazione eritis sicut dei".
Infatti, la prova dell'Anello è tutta qui. Solo chi riconosce umilmente il dono gratuito della Grazia riesce ad affrancarsi dall'oscuro potere dell'Anello. Solo chi si fa folle per Dio riesce a non impazzire:

"Ebbene che, la follia sia il nostro manto, un velo dinanzi agli occhi del nemico! Egli è molto saggio e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della malvagità [...]. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare tanto il bramato potere o che possedendo l'Anello voglia distruggerlo"

esclama Gandalf nel Consiglio di Elrond, un dei più bei capitoli del Signore degli Anelli (pp.339-340). Solo chi si fa umile e abbandona tutto nelle mani di Dio può vincere.
Non vi riesce il pur valoroso Boromir che pretende di poter dominare da solo l'Anello e con quello sfidare Sauron. Non vi riesce Saruman, lo stregone corrotto dal potere e dalla brama di possesso. Non è tutto: non solo i corrotti, ma nemmeno i buoni di nobile stirpe, come Aragorn, il Rex Venturus secondo la bella definizione di Franco Cardini, o Gandalf, colui che è tornato dalla morte ed ha lavato le vesti rendendole bianche, due eroi due saggi che hanno rinunciato all'Anello e che pure possono vantare tutte le virtù, non sono loro gli autori della salvezza.
Dove falliscono i grandi, riescono i piccoli perché sia ancora più evidente che è la Grazia Divina ad operare. Quando vengono dispersi i superbi nei del loro cuore, vengono innalzati gli umili. Tra uomini coraggiosi combattenti, nani duri e potenti come la pietra, stregoni saggi e pronti al sacrificio ed elfi valorosi escono vincitori gli Hobbit, le creaturine più insignificanti di tutta la Terra-di-Mezzo: né combattenti né maghi. "Gli Hobbit sono diversi soprattutto perché non sono crudeli", spiega Gulisano nell'articolo succitato e Bilbo e Frodo, protagonisti rispettivamente de Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, possiedono anche una profonda umiltà e il dono di saper rinunciare.
Entrambi sono stati tolti di peso dalla loro vita tranquilla ed hanno scoperto sulla loro pelle che militia est vita hominis super terram. Entrambi hanno accettato sulle loro spalle un carico più pesante di quello che avrebbero potuto sopportare e un fardello del quale nessuno voleva caricarsi. Entrambi hanno rinunciato al loro vantaggio, Bilbo cedendo l'Archipietra in cambio della pace, Frodo facendosi portatore dall'Anello. Entrambi hanno avuto la possibilità di uccidere Gollum, il loro principale nemico, e mossi da pietà non lo hanno fatto. Proprio in virtù di questa rinuncia la Provvidenza, sempre presente nell'opera tolkieniana, si serve di Frodo per salvare il mondo intero: la Grazia divina è la vera artefice della salvezza poiché non c'è nessun eroe, nessun vincitore, nessun uomo, o elfo o nano o Hobbit che può arrogarsi il merito di aver salvato la Terra-di-Mezzo: lo stesso Frodo, mediante il quale l'anello, e quindi Sauron, viene distrutto è, a modo suo, uno sconfitto.
"Frodo ha fallito, [...] lui (e la causa) vennero salvati dalla pietà: grazie al valore supremo e all'efficacia della compassione e della capacità di perdonare le offese", scrive Tolkien a Miss J. Burn, una lettrice. Alla radice del successo c'è l'esercizio della pietà e della rinuncia: "è la pietà di Bilbo ed in seguito di Frodo che alla fine permette alla ricerca di essere portata a compimento" confida ancora Tolkien in una lettera a Peter Hastings. E ribadisce il concetto nella missiva a Michael Straight:

"La salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare le offese. In qualunque momento una persona prudente avrebbe detto a Frodo che Gollum l'avrebbe certamente tradito, e alla fine avrebbe potuto derubarlo. Aver pietà di lui, proibire che venisse ucciso, era una follia, o l'esempio della convinzione mistica del valore della pietà e della generosità anche se si fossero dimostrate disastrose nel nostro mondo. [...] Grazie ad una situazione creata dalla sua capacità di perdonare, Frodo si salva, e viene sollevato dal suo fardello".

Proprio i temi della pietà e della rinuncia sono una costante chiave dell'opera di Tolkien: basti considerare che Il Signore degli Anelli, pur inserendosi nel filone classico della cerca ne ribalta gli estremi: Il Signore degli Anelli non è una caccia ad un tesoro, non e la scoperta di miniere dimenticate, non è la liberazione di una principessa, non è la ricerca del Sacro Graal, ma un viaggio per rinunciare, per deporre, per distruggere, nella fattispecie l'Unico Anello. Anche questo in Tolkien rivela la sua profonda originalità. E le virtù degli eroi non sono solo il coraggio, la virilità, l'arguzia, l'abilità nel maneggiare la spada: le virtù principali per Tolkien, quelle che caratterizzano i suoi eroi sono la pietà, l'umiltà, l'amicizia, e sono virtù delle quali Tolkien può parlare perché la ha vissute in prima persona. Vorrei leggere un breve pezzo da una dichiarazione di Michael Tolkien, uno dei figli di Tolkien, che parla proprio di questo:

"Almeno per me, non c'è nulla di misterioso nell'entità del successo toccato a mio padre il cui genio non ha fatto altro che rispondere all'invocazione di ogni età e carattere, stanchi e nauseati dalla bruttezza, dall'instabilità dei valori d'accetto, delle filosofie spicciole che sono state spacciate a loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell'esaltazione, dell'avventura, dell'eroismo e della gioia senza la quale l'animo stesso dell'uomo inaridisce e muore senza di lui."

Tolkien era una persona estremamente semplice, dove con semplice non si vuol dire "sciatto", era una persona molto gentile, era un professore di Oxford considerato anche un po' strano per le sue abitudini. Nella biografia di Carpenter pubblicata dalla Ares, ci viene descritto nella semplicità della sua giornata, che cominciava con la messa al mattino e che continuava con le colazioni in famiglia, con le lezioni ad Oxford dove entusiasmava i suoi studenti, con le lezioni private dove riusciva finalmente a far capire ai suoi studenti perché certe cose erano state scritte e in che modo. Era una persona che viveva fino in fondo le virtù quali la carità, l'amicizia, la sobrietà, l'attenzione per gli altri. Era un padre di famiglia attento: Tolkien ha quattro figli, era padre che dedicava molto tempo al suoi ragazzi raccontando loro le storie che poi sono diventate libri. Ecco, solo chi conosce le virtù per averle vissute può scrivere di queste virtù. Tutte queste virtù rientrano nel Signore degli Anelli e sono presenti nei suoi personaggi. Dicevo prima dell'amicizia. Queste sono le splendide pagine in cui Tolkien parla dell'amicizia, forse la più bella è quella dello scontro di Sam e Shelob, il ragno gigante che sta uccidendo Frodo, ma sono molte altre le pagine in cui l'amicizia viene esaltata. Che valore ha oggi l'amicizia, una virtù che è quasi stata dimenticata? La vera amicizia è praticamente sparita perché sostituita dalle convenzioni sociali, con i rapporti nati dal bisogno, dalla volontà di emergere. È difficile legarsi ad un amico perché poi potrebbero essere legami che in qualche modo ostacolano la riuscita, il successo. Ecco, Tolkien, invece, questa virtù l'ha cantata, l'ha vissuta, non a caso il primo libro che ha scritto, il primo della trilogia del Signore degli Anelli (trilogia solo perché così edita e non perché così pensata) che si intitola La Compagnia dell'Anello. È in compagnia che lui vede una possibilità di cammino e di salvezza per l'uomo. Ma l'eroe che vive di queste virtù, l'eroe che è soprattutto un eroe umile, su quale aiuto soprannaturale può contare? Ha ancora bisogno di maghi, di incantesimi? A chi può fare ricorso nelle difficoltà? È l'azione della Grazia che dà aiuto a un eroe di questo tipo e che si esplica perché Frodo ha accettato la missione che gli veniva proposta e si è comportato nei confronti dei più deboli - e Gollum è senz'altro più debole di lui - con pietà e misericordia. Quali parole migliori di quelle che Emilia Lodigiani ha utilizzato, nel suo Invito alla lettura di Tolkien (Mursia), il miglior saggio apparso in Italia sullo scrittore inglese, potrei trovare per descrivere la situazione di Frodo?

"La sua scelta è cosciente e responsabile. I suoi dubbi, la paura davanti al sacrificio, la recondita speranza di poterlo allontanare e infine l'accettazione in obbedienza a un disegno superiore, quasi eco dell'intensa pietà e umanità di Cristo nell'Orto degli Ulivi, sono i segni evidenti del prezzo di sofferenza che sa di dover pagare. [...] Frodo assume il ruolo di un eroe di un'avventura il cui scopo si presenta dalla partenza negativo. [...] Una quest rovesciata che dà senso profetico al mito contemporaneo di Tolkien: il 'mito della rinuncia' contrapposto a quelli di Prometeo, di Ulisse, o di Faust in cui la civiltà occidentale ama vedere riflessa la sua inquieta e tormentata anima." (pag. 82-83)

Ma più di Ulisse, di Faust, di Prometeo, delle tartarughe ninja, il nostro mondo oggi ha bisogno di seguire il modello di questi eroi simili, obbedienti, allegri, che possiamo definire pii, alla stregua del pius Aeneas, E sono eroi che comunque hanno ottenuto il loro successo, un successo che è cominciato in America nel '65. I primi libri di Tolkien furono pubblicati attorno agli anni '30/'40. Lo Hobbit, del '37, ottenne un grande successo soprattutto come libro per bambini. Il successo di questo libro fu tale che Tolkien fu invitato a scrivere, non il Signore degli Anelli, bensì il seguito dello Hobbit, un nuovo libro per bambini. Tolkien, mentre scrive il Signore degli Anelli, si accorge che non sta più creando il seguito dello Hobbit, non sta più creando un'altra favola, ma qualcosa di molto più importante. E la stesura di questo romanzo gli portò via parecchi anni. La prima parte del Signore degli Anelli esce nel '54, in Inghilterra, ma il vero successo di Tolkien nasce nel '65 quando una casa editrice pirata che pubblica moltissimi libri di fantascienza, la Ace Book, fa uscire un'edizione tascabile del Signore degli Anelli senza l'autorizzazione dell'autore. A questo punto scoppia un po' la scoperta di questo tipo di autore. In tutti i campus universitari si legge Tolkien e probabilmente all'origine del suo successo c'è proprio un fraintendimento. Quelli sono gli anni della guerra del Vietnam, sono gli anni della scoperta della droghe, sono gli anni del disincanto. Probabilmente gli studenti vedono in Tolkien, erroneamente, un cantore di un Arcadia che non esiste, di un mondo irenico, lontano dalla realtà nella quale vogliono rifugiarsi. Scoppia il successo. Nel giro di poco tempo vengono vendute parecchie centinaia di migliaia di copie. A tre anni dall'uscita del Signore degli Anelli in America, sono già più di tre milioni le copie vendute nel mondo. Oggi, siamo nel '92, abbiamo superato i venti milioni di copie vendute del Signore degli Anelli in tutto il mondo. In Italia questa cifra si aggira sul milione e mezzo di copie. In Italia il Signore degli Anelli arriva tardi, nel '70; a dir la verità nel '67 era già uscita una prima edizione della prima parte del Signore degli Anelli, pubblicato da una piccola casa editrice, l'astrolabio. Ma è nel '70 con Alfredo Cattabiani che il Signore degli Anelli arriva alla Rusconi e comincia ad essere presente sul mercato italiano. Nel '74 esce la prima edizione tascabile e nel '77 ne esce una nuova ed in brossura che paradossalmente diventa da questo momento la prima edizione italiana. Ad oggi sono trentadue le edizioni uscite in Italia.
Tolkien in Italia visse uno strano clima. Come al solito noi in Italia tendiamo a regionalizzare, provincializzare quello che accade nel mondo. Ad es. il Santo Padre va all'estero, in un altro continente, fa dei discorsi che riguardano l'uomo nel suo aspetto universale, in Italia i politici si azzannano perché vedono nell'intervento del papa l'aiuto a questo o a quel partito per le elezioni amministrative di un piccolo comune. Allo stesso modo Tolkien fu interpretato alla luce delle beghe politiche che c'erano in Italia in quel periodo. Allora la sinistra si scagliò contro Tolkien perché vedeva in esso un reazionario, soprattutto perché era stato pubblicato da una certa casa editrice da un certo direttore editoriale, e lo bocciò clamorosamente. Dall'altro canto, fu l'opposizione alla sinistra, l'estrema destra che rivitalizzò Tolkien, lo prese come simbolo fino a creare degli improbabili campi Hobbit nei quali veniva commista la politica a quello che Tolkien voleva dire. Tolkien non è un politico, non è un maestro di politica, e non è soprattutto un maestro. È un modello, se vogliamo, da seguire, qualcuno che non vuole fare della profezia, delle prediche o dare degli insegnamenti, ma vuole semplicemente comunicare qualcosa al lettore. In Italia, il Signore degli Anelli conosce in questo periodo una certa ritualizzazione. Comunque è senz'altro significativo il fatto che più di un milione e mezzo di copie sono state vendute nel nostro paese di questo libro, nonostante, appunto, una certa parte della cultura, e la cultura che era dominante in quegli anni, lo avesse bloccato e lo avesse completamente tagliato fuori dai circuiti elitari, come venivano allora considerati.
Concludendo questo mio intervento, non posso che invitare a leggere, per chi non l'avesse già fatto, il Signore degli Anelli e le altre opere di Tolkien, da un lato, e quei libri che io ritengo fondamentali per capire meglio il messaggio di Tolkien e per addentrarsi meglio nella sua Terra-di-Mezzo. Sono l'invito alla lettura di Emilia Lodigiani, che citavo prima, la raccolta di lettere di Tolkien, La Realtà in trasparenza, pubblicata da Rusconi, ma soprattutto la biografia scritta da Carpenter e pubblicata da Ares. Questi secondo me i tre migliori compagni con i quali affrontare il viaggio nella Terra-di-Mezzo.

 

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